FURNI DEI PIRATI

FURNI DEI PIRATI

Le isole Furni si trovano appena a sud dello stretto fra Samos e Ikaría. Sono terre alte, aride e frastagliate, antico rifugio di pirati. Quando,  doppiato Capo Saila, ci si dirige verso il paesetto di Furni, si scorgono, arroccati su aspri pendii, un villaggio e qualche casa sparsa. Mettendo la prua nella baia , dove attraccano i traghetti e dove sono ormeggiate numerose piccole barche da pesca, si legge, scritto a grandi lettere su una parete, il saluto di Furni al visitatore: «Kalòs ílthate Fúrni ton corséon» benvenuti a Furni dei Pirati.

VISTA DEL PAESE DI FURNI E DELLA SINUOSA COSTA

Poco più di cinquant’anni prima di Cristo, gli abitanti di Furni incapparono in un colpo di fortuna che si tramutò in un’immane sventura.Sulla vicina isola di Farmaco catturarono uno dei personaggi più famosi dell’epoca: niente meno che Cesare della Gens Julia.Sembra che il romano si trovasse a suo agio a Furni : i suoi rapitori, compresa l’importanza del personaggio e consci del fatto che avrebbero potuto chiedere un pingue riscatto per la sua liberazione, lo trattavano con ogni riguardo.

Cesare, uomo astuto, avendo capito di essere prezioso per quella gente e di non correre nessun pericolo, si prendeva gioco di quei poveri pirati cui era capitata una fortuna tanto grande che la loro ingenuità e i loro parametri di valutazione non consentivano di gestire.Si racconta che fu lui a proporre al capo di quell’impacciata masnada il prezzo del riscatto. Era talmente alto che non fu creduto realistico e, per finire, fu richiesta e subito accettata dal senato di Roma una sua infima frazione. Tornato in libertà, Cesare armò alcune navi, ritornò a Furni e passò per le armi tutti gli abitanti che riuscì a catturare, si dice, profondamente offeso per l’esiguità del riscatto richiesto.

 Leggendo questa storiella, che pare abbia riscontri storici, mi sono ritrovato a parteggiare per quei poveri banditi. Proprio Giulio Cesare doveva finire nelle loro mani!

IL PORTO DI FURNI

Oggi Furni è un bel villaggio di case bianche con serramenti e stipiti blu, ancora piuttosto risparmiato dal turismo. I suoi abitanti sono gentili, sorridenti e cordiali. Sulla via centrale alberata, che dal porto conduce a una piazzetta ombreggiata da un enorme platano e che ospita un bel sarcofago romano, si affacciano alcuni negozi. Vendono povere cose stipate all’inverosimile su vecchie scansie di legno, come quelle che si vedevano un po’ dappertutto in Grecia fino a qualche decina d’anni fa. Alcuni propongono una nota specialità dell’isola: il miele, secondo, per qualità, forse solo a quello di Kasso.

IL VIALE CENTRALE CON I MOLTI NEGOZI

I bar e le taverne sul porto hanno ancora tavoli e sedie in legno dipinto di blu, e tovaglie a riquadri bianchi e azzurri, come una volta.

Alla radice della banchina dei traghetti, sotto la capitaneria, vi è il ristorante che da anni frequentiamo; all’ingresso della terrazza, ben esposti su banchi , saraghi, dentici, ombrine, aragoste…  Lì una signora piccola e rotondetta suole avvicinare sorridente i possibili clienti di passaggio, poi  abbraccia e bacia quelli che non riescono a sottrarsi : un chiaro invito a cenare nella sua taverna, ma anche un “benvenuto” che può mettere in imbarazzo.  Nei mesi invernali, ci piace cenare all’interno, dietro la terrazza, su vecchi tavoloni, in una  grande stanza  con appese alle pareti vecchie fotografie del luogo, accanto a quelle di antenati della famiglia.

AMALTEA ALLA BANCHINA DEI TRAGHETTI

Il porto di Furni non è molto frequentato dalle barche ludiche a causa delle difficoltà di ormeggio. Le rive nord ed est della baia sono occupate da scafi da lavoro e da piccole barche da pesca, vicino alla riva sud manca fondale.  Di fatto ci si può solo ormeggiare all’inglese ai lati del molo dei traghetti. E non è raro che i pochi metri di banchina, che ti consentirebbero di accostare, siano occupati. In questo caso si può tentare di dare fondo nella baia appena a sud del porto, da dove ritornare al paese a piedi non è agevole.

IL PORTICCIOLO DI KRISOMILIA’

Una decina di miglia a nord del paese di Furni, in una profonda baia, è ben visibile il villaggio pressoché disabitato di Krisomilià. Poco più in basso, il suo minuscolo porticciolo frequentato da piccole barche locali. E’ ben protetto dalla conformazione della costa e da un consistente pennello, dietro al quale possono attraccare, all’inglese,  un paio di barche di medie dimensioni. L’ambente a terra è del tutto particolare. La piccola taverna, i tratti del volto dei locali che la frequentano, la breve spiaggia sassosa su cui si affacciano improbabili costruzioni in muro, in lamiera o canne, adibite a “case vacanza” o a magazzini per attrezzature da pesca. Poi il piccolo albergo, al fondo alla riva ciottolata, che sembra il frutto di ripensamenti architettonici di un fantasioso artista …E la signora gigantesca , in cui è difficile riconoscere un che di femminile, che scende dal suo altrettanto enorme SUV e lancia ordini a quelli della trattoria con voce minacciosa  … Ricordo che qualcuno a bordo di Amaltea definì il tutto “ felliniano”.

Amaltea ha sostato alcune volte nel porticciolo di Krisomilià. Ci siamo sempre trovati a nostro agio: il pescatore che arretra di qualche metro la sua barca per darti spazio in banchina, i conduttori della trattoria che, gentilissimi, ti offrono ciò che hanno…lì non c’è menu…gli anziani seduti ad un tavolino sotto il tiglio sulla riva che osservano i pescatori intenti alle loro occupazioni…l’anziana che sferruzza vicino alla gabbia di canarini…

Le altre baie più a sud, sulla costa ovest dell’isola, hanno un fondo di sabbia dura che sembra respingere le ancore. Sì Furni è un’isola di grande fascino, ricca di baie, anche profonde. Ma non è facile ormeggiare o ancorare in sicurezza. Probabilmente è anche a questo che dobbiamo, oggi, l’opportunità di ritrovare, su questo lembo di terra,  il sapore della Grecia di una volta.

UN OSPITE INDESIDERATO

UN OSPITE INDESIDERATO A BORDO

Era da alcuni giorni che notavamo segni di una presenza indesiderata a bordo: pane sbocconcellato, una mela rosicchiata, una fetta di formaggio priva di un angolo, che sembrava essere stato tolto in fretta da qualcuno che non aveva pensato di prendere un coltello… poi, un pomeriggio, ad Arkì, alla fonda nella baia appena ad est di porto Augusta, un grido proveniente dalla cucina annuncia :“ Topo a bordo!!!”. Scendo subito in cucina e incontro Lores:” Sì l’ho visto passare di corsa, fra me e il fornello, era un bel ratto, aveva le orecchiette tirate indietro… velocissimo”.

In barca non avevamo trappole e decidemmo che, fino a quando non fossimo stati attrezzati opportunamente, avremmo dovuto garantire cibo al roditore, per evitare che ficcasse i denti in cose più preziose come cavi elettrici, guaine, tubi di gomma…Alla sera ci spostammo a porto Augusta e, consci del fatto che in loco non sarebbe stato facile procurarci una trappola, decidemmo di tentare di catturare il ratto con i mezzi di bordo.

“Potremmo provare con la pattumiera, forse funziona” era la voce di Furio, un ottimo bricoleur dotato di tanta fantasia. “La pattumiera, che si apre a compasso dal blocco della cucina, è profonda quasi un metro, ha una grande apertura, ed è in acciaio inossidabile liscio”. Lo guardo dubbioso e:” Sì, va bene, ma come fai a farvi entrare il topo?” La risposta giunge pronta:” blocchiamo la pattumiera aperta, copriamo l’apertura con un foglio di giornale, e mettiamo nel mezzo un pezzo di grana…il ratto dovrebbe cadere all’interno”. Non mi sembra una cattiva idea e ci mettiamo all’opera. Detto fatto la trappola è pronta.

Quando, a sera, ritorniamo dalla cena a terra, il foglio di giornale è ancora al suo posto con, in bella mostra, intatto, il pezzo di grana. Dopo qualche battuta sull’avvenimento del giorno, ci ritiriamo per la notte. Sono nel profondo del sonno quando un tramestio mi sveglia…corro in cucina; Furio e Annetta stanno parlando animatamente: il roditore è caduto nella pattumiera ma ne è anche uscito. Furio mi guarda sorridente:” Dovevamo pensarlo, certo la pattumiera è profonda e le pareti non offrono appiglio, ma queste bestiole sono molto agili. La trappola ha funzionato, ma il ratto ha trovato appoggio sufficiente per spiccare un salto e uscire. Avremmo dovuto mettere un po’ di acqua sul fondo e non avrebbe avuto scampo”

Il giorno successivo saremmo andati a Samos e decidemmo di riprendere lì la caccia al roditore con una trappola seria che non avremmo avuto nessuna difficoltà a procurarci in loco. Ripartimmo tardi da Arkì e giungemmo a Pitagorion di sera…ma era sabato, negozi di ferramenta chiusi…. e anche il giorno successivo: domenica.

“Adesso andiamo a cena fuori, poi, al ritorno, vediamo cosa fare, magari riproviamo con la pattumiera, questa volta mettiamo un po’ d’acqua sul fondo.”

Durante la cena valutiamo altre soluzioni…ma nessuna sembra convincente. Per ritornare alla barca ripercorriamo la banchina del porto, affollatissima, come sempre in stagione estiva. Penso alla nostra trappola e a come potremmo migliorarla…non so che non ce ne sarà bisogno…che la cattura si realizzerà in tutt’altro modo.

Saliamo dunque a bordo. Furio apre il tambucio e scende per primo nel quadrato. Qualche secondo dopo ci comunica ad alta voce: “Il topo è entrato nella cabina di sinistra, dove dormiamo noi due “. Annetta si fionda in quadrato, entra con Furio nella cabina e chiude subito la porta. Dal pozzetto sentiamo rumori, colpi, qualche parola, un botto, una risata… Poco dopo Annetta esce dalla cabina. Sul palmo della mano sinistra regge un pagliolo sul quale, coperto da un secchio di plastica trasparente, c’è un bel ratto. Qualcuno chiede:” Come l’avete preso?” La risposta giunge pronta:” Con le mani, come altrimenti?” “Certo, mi son detto: la cosa più naturale al mondo.

Poco dopo brindavamo alla cattura seduti sulle panchine del pozzetto. Ai nostri piedi il pagliolo con il topo. Furio è un animalista convinto e proprio non gli andava né di uccidere il ratto né di buttarlo in acqua. Così abbiamo atteso che il flusso di turisti sulla banchina diminuisse… Poco dopo la mezzanotte Furio camminava  veloce, passando davanti ai bar con fare disinvolto, diretto al fondo della banchina , dove si calafatano le barche da pesca; reggeva, davanti a sé, il pagliolo con il ratto, che certo non poteva immaginare che sarebbe stato liberato.

Al suo ritorno, nel pozzetto di Amaltea, l’ultimo brindisi, questa volta ai “Gatti di Bordo”.

La presenza di un roditore in barca non è un’eventualità rara. Ecco due brevi storielle che ho raccolto da naviganti che hanno vissuto questa esperienza.

Un noto velista originario di Bassano, armatore di un affermato e noto quarta classe che stazionava a Caorle, non lontano dal nostro Maria Vittoria, era in crociera, in Istria, con la sua numerosa famiglia. A Parenzo risultano evidenti i segni della presenza di un topo in barca. Una grande agitazione si diffonde a bordo. Nessuno riesce più a dormire. Qualcuno si appisola, ma al primo rumorino si veglia di soprassalto gridando:” mi stava rosicchiando l’alluce, ne sono sicuro…” Uno scricchiolio della barca, uno strattone su una cima e sono tutti svegli. Ogni tentativo di scovare l’intruso si rivela inutile, i nervi dell’equipaggio sono al limite e qualcuno avanza la proposta di un veloce ritorno a casa. L’armatore, ben noto per la sua tendenza a rimediare a situazioni estreme con estremi rimedi, entra nel marina di Veruda. Poco dopo i vicini di pontile assistono al lavoro frenetico dell’equipaggio che scarica sulla banchina materiale di ogni tipo…sacchi di vele, salvagente, borse, bagaglio personale, cassetta attrezzi, cucina di bordo… fino a quando, sul moletto si è formato un grande mucchio di materiale; da chiedersi come tutta quella roba si trovasse su una barca di 34 piedi. La curiosità degli spettatori cresce…: e adesso…cosa succede? A questo punto vedono l’armatore che si avvicina alla barca con un tubo, da cui esce un abbondante flusso d’acqua e lo introduce nel tambucio. Poco più tardi il risoluto navigante, che osservava chino sull’apertura, il livello dell’acqua che saliva, entra in barca e ne esce subito dopo con un bel ratto che ha tramortito con un colpo di remo.

Ed ecco un’altra vicenda curiosa. Nel marina di Lavrion, mi rende visita a bordo lo skipper di uno Swan 65 charterizzato. Attende clienti svizzeri che hanno richiesto espressamente che la barca issi in crocetta la bandiera di “ospite a bordo”. Mi dice che quella bandiera nazionale sembra introvabile a Lavrion.  Quando gli offro il vessillo rosso-crociato che abbiamo su Amaltea, mi ringrazia con grande fervore. Per lui era importante: nel gruppo in arrivo c’era una signora che gli aveva già creato non pochi problemi per via di un topo in barca.  Il roditore aveva manifestato la sua presenza a bordo nei soliti modi: cibo vario sbocconcellato… con la complicazione che, essendosi nutrito abbondantemente di uva, notoriamente lassativa, sporcava la barca lasciando la traccia dove passava. Lo skipper e il suo aiutante, per due interi giorni, danno al roditore una caccia tanto estenuante quanto inutile… Gli ospiti sono ormai al limite della sopportazione, la signora, poi, sembra presentare i primi segni di pazzia: minaccia lo skipper di sbarcare e di denunciare la sua incapacità alla società intermediaria. La mattina del terzo giorno i due professionisti scorgono il ratto in coperta, a prua. Come si avvicinano, la preda si rifugia nel gavone dell’ancora. Lì è in trappola: non può uscirne se non per dove è entrato. Lo skipper mette la testa nel gavone e, dopo alcuni minuti di perlustrazione con la torcia, scorge l’animale aggrappato sotto la coperta. Poco dopo il giovane ritorna nel pozzetto trionfante, con il ratto trafitto su un arpione da pesca subacquea. Problema risolto…sembra.… Passano alcuni minuti;  gli ospiti, per quanto ancora sotto shock per il vissuto dei giorni precedenti e per l’immagine un po’ truculenta del ratto trafitto, paiono tranquillizzarsi…poi succede l’incredibile: la nostra signora si rivolge allo skipper minacciandolo di denunciarlo di crudeltà all’ associazione protezione animali e di esporre reclamo alla società intermediaria segnalandolo come uomo rude e privo di cuore, che, certo, non faceva onore alla società… una vergogna!!

SAMOS

ISOLA DI SAMOS

Nella mitologia Samo è legata al mito di Hera( per i latini Giunone) , figlia di Crono e Rea, e sorella e moglie gelosissima di Zeus. Era la patrona della famiglia, della fecondità, dei parti e delle messi. A lei fu dedicato, nell’VII sec. a.C., un tempio  eretto nella parte sud orientale dell’isola, non lontano da Pytagorion.

RESTI DEL TEMPIO DI HERA

Samo fu abitata fin dal III millennio a.C. da popoli anatolici. Nell XI secolo entrò nella sfera degli Ioni, popolo di navigatori e commercianti che le fecero vivere un periodo florido. L’apice della fortuna dell’isola coincide con il regno di Policrate, nel VI secolo , durante il quale  si popolò di artisti, poeti e scienziati. Divenne poi membro della Lega Attica con cui in seguito entrò in conflitto. Atene, ai tempi di Pericle, la sottomise distruggendone la flotta. Seguì un periodo di declino che si arrestò nel II sec. quando Samos divenne parte della provincia romana d’Asia.  Il declino dell’isola riprese nell’epoca bizantina. Nel XIV secolo d.C fu ceduta ai Genovesi cui seguirono i Turchi.

Liberatasi dal giogo ottomano, dovette respingere con la forza i suoi tentativi di riconquista.  Con il protocollo di Londra del 1830 restò fuori dai confini del nuovo stato greco , e si proclamò repubblica  indipendente di Samos. Dopo alterne vicende, che la videro sottoposta all’ennesimo dittatore  cui seguì un periodo di rinascita in regime democratico, nel 1912, con l’inizio della guerra balcanica , si unì alla Grecia ormai da tempo liberata.

L’isola è in gran parte montuosa, ricca di villaggi per lo più situati sulle alture. Nella parte orientale , dove i rilievi lasciano il posto ad una vasta zona pianeggiante, sorgono i due centri principali, a nord  Vathy, con Samos, suo porto commerciale e  centro amministrativo dell’isola, e, a sud, Pythagorion , dal nome dell’illustre scienziato e filosofo che qui ebbe i natali. Pythagorion è conosciuta anche con il nome di  “Tiganì” (padella) per la forma circolare del suo porto, intensamente frequentato dalle barche ludiche. Chi vi giunge per la prima volta resta sorpreso dalla quantità di bar e ristoranti che sorgono sulla banchina che chiude lo specchio d’acqua verso il paese. A sera i locali si riempiono di avventori e motivi musicali si diffondono nell’aria.

PORTO di PYTHAGORION

Di tanto in tanto anche un ambiente turistico può essere piacevole e i nostri equipaggi di norma gradiscono far sosta qui.

Ed ecco il racconto di una delle nostre soste a Pythagorion .

Terminata la manovra di attracco, mi avvio sulla strada che conduce all’aeroporto e a Samos città. il posto è decisamente frequentato. Negozietti e piccoli esercizi commerciali si affacciano sui due lati della via, tutti con la loro insegna…”Nikos rent a Car and Bikes” sì, una vecchia conoscenza. Quando entro nel negozio, un signore, che ha più o meno la mia età, mi scruta per qualche secondo, poi sorride mentre mi viene incontro con la mano tesa: «Posa chronia gnorizomaste? Trianda?» da quanti anni ci conosciamo? Trenta?  «No, dal 1985, venti. Io avevo quarant’anni e tu più o meno gli stessi.» Nikos è piccolo e un po’ tarchiato. Ha occhi chiari che esprimono il candore di un bambino. Ha un viso tondo e tanti capelli bianchi scomposti.

Mi dice che sono tre anni che non ci vediamo. Gli racconto del nostro viaggio attorno al mondo appena concluso, vuole saperne di più. Gli chiedo come va il lavoro. La risposta è quella che danno tutti i greci quando le cose vanno bene: «Kalá, dóksa sto Theó» bene, gloria a Dio. Mi chiede cosa farò quando terminerò questo viaggio; mi dice che l’uomo non può non lavorare, che se uno si ferma è finito. Gli rispondo che non ho più un lavoro, che non ho idea, che vedrò. Me la dà lui: ti compri qualche barca e l’affitti, con la tua esperienza potresti anche fare lo skipper professionista. Gli dico che non mi sembra una buona idea trasformare una passione in un’attività, proprio no.

SCORCIO DEL PORTO

Dopo una lunga chiacchierata nel bar vicino in cui ci raccontiamo tante cose, prendo una moto e faccio il giro dell’isola. Samos è grande , bella, ricca d’acqua e verde, vi si produce vino, olio, frutta… Ritorno qualche ora dopo con tante belle immagini ancora negli occhi. Nikos non c’è, dico alla segretaria di salutarmi il boss, che ci vediamo l’anno prossimo.

Trovo piacevole passeggiare nel porto di Pythagorion, fra i bar con le poltroncine dotate di spessi cuscini il cui colore definisce lo spazio di pertinenza dei vari locali.

Vado sul molo di levante a rivedermi il monumento a Pitagora, su quello a sud a cercare inutilmente di individuare la parte di frangiflutti eretta da Policrate, il famoso tiranno, e conglobata in quella costruita in tempi più recenti. Siedo poi in un bar a osservare il passeggio; di tanto in tanto entra in porto una barca e compaiono, sul ponte di quelle in banchina, gli skipper a controllare dove il nuovo arrivato cala la sua ancora; si sente qualche urlo: «Nooo! Non lì sulla mia». Poi prendo la cima imbrogliata che mi lanciano da una barca che accosta. Un greco viene all’ormeggio dimenticando di dare ancora, quando dico allo skipper: «Ke to sidero?» e il ferro? Si dà una pacca sulla fronte, corre a prua e dà fondo a non più di 15 metri dalla banchina.

È quasi l’imbrunire quando ritorno verso Amaltea . Qualcuno mi chiama ad alta voce: «Marieee!». Mi giro e rigiro fino a quando vedo un uomo che si alza da una poltroncina di un bar e mi viene incontro. È Ghianni, mi invita al tavolo.

LA PASSEGGIATA LUNGO IL MOLO

Sapeva che ero nei paraggi. Aveva parlato al telefono con Gheòrgos di Agathonisi che gli aveva detto che era passato un italiano con un due alberi, poi aveva visto Amaltea in porto. Mi aveva cercato a bordo, ma non aveva avuto risposta.

Vive affittando barche da diporto. Tre anni fa ne aveva due, adesso sono quattro e la quinta è in arrivo; il lavoro va a gonfie vele, doksa sto Theò. Ci conosciamo dal ‘90, quando mi dette una mano per porre rimedio a un’avaria del Maria Vittoria. Ci siamo incontrati più volte nel corso degli anni, qui e su isole vicine, dove accompagnava turisti che avevano noleggiato una sua barca. Ha un aspetto curato, è ben rasato, ha una scriminatura netta che divide capelli ben pettinati, occhi scuri che si muovono rapidamente, come il pensiero. Ha l’aria di chi, partito dal nulla, si è creato un po’ di benessere ed è convinto di saperla lunga. Ne è passato di tempo da quando, negli States, raggranellava pochi dollari con umili lavori. Oggi lui è un abile imprenditore. Il nuovo marina di Pithagorion è quasi finito, ma non fanno i lavori che consentirebbero di incassare. Non capiscono, se mettessero le cose in mano a lui, in un mese…

Ritorno su Amaltea quando è quasi notte. Domani si va a Foùrnoi ton Korséon, Furni dei Pirati , quelli che, per loro sventura, un giorno catturarono Cesare…

A NORD di LEROS, PATMOS e ARKI

Isola di PATMOS

La barca che lascia il porto di Lakki e dirige a nord entra in una delle zone più affascinanti e ricche di isole del Mar Egeo. Sulla prua appare subito Patmos, dominata da un imponente monastero, più simile ad una fortezza, simbolo  di un potere temporale, che a un luogo di raccoglimento e di preghiera.

IL MONASTERO

Una leggenda racconta che Patmos esisteva nel profondo del Mar Egeo ed era visibile solo quando la Luna l’illuminava. La dea Artemide si innamorò dell’isola e la volle per sé. Si rivolse quindi ad Apollo, suo fratello- gemello, perché facesse pressioni su Zeus per farla emergere. 

L’isola ha una storia quanto mai travagliata. Abitata all’inizio da stirpi doriche e ioniche, assoggettata poi da Mileto, sua dirimpettaia sulla costa asiatica, divenne luogo di confino in epoca romana. Lì fu esiliato, nel I° secolo d. C Giovanni Evangelista che vi scrisse il Libro delle Rivelazioni, l’Apocalisse. Con la divisione dell’Impero divenne bizantina. Fu in seguito ceduta da Alessio Comeno ad un monaco che intendeva farne un “laboratorio di virtù”. E’ di questo periodo la costruzione dell’attuale monastero, eretto sui resti del precedente, distrutto nel corso di numerose incursioni piratesche. La comunità monastica si sviluppò rapidamente e, alla fine dell’XI secolo, il monastero aveva numerosi possedimenti su altre isole. Patmos divenne poi veneziana e, alla caduta di Bisanzio, turca. Nel 1912 fu occupata dagli italiani che vi restarono fino alla seconda guerra.

SKALA , il porto

Patmos, con il suo profilo di alture e avvallamenti, è ricca di promontori e di baie, quasi tutte ottimi ancoraggi. Skala, il porto dei traghetti, offre ampie opportunità di ormeggio anche alle barche ludiche. In stagione è frequentata da grandi navi da crociera che vi scaricano frotte di turisti, attratti dalla visita al monastero, e che affollano sia le viuzze dell’angiporto, su cui si affacciano numerosi negozietti di articoli per visitatori di passaggio, sia la chora, appena sotto il monastero.

Così non pochi naviganti preferiscono sostare a Griko, un’ampia baia, gradevole e ben protetta, appena a sud della chora, o optano per le isolette di Lipsoi , di Marati e di Arkì , a una decina di miglia ad est di Patmos e a una quindicina dalla costa turca, in acque eccezionalmente pulite e trasparenti.

ISOLE a Nord di LEROS

Sono terre ricche di incantevoli insenature e i loro abitati, con case bianche a cubo e infissi blu, sono molto simili a quelli delle Cicladi.

Il meltemi vi soffia meno vigoroso che più ad ovest nell’Egeo, fatto che facilita la vita a chi naviga. Arkì, appena a nord di Lipsi e ad est di Marati, mi è particolarmente cara. Delle tre è quella che, nel corso degli anni, abbiamo frequentato più assiduamente.

ARKI, baia di AUGUSTA

I pochi abitanti dell’isola vi soggiornano in estate. In inverno stanno per lo più a Patmos, dove molti hanno una casa.

Ad Augusta, una bella baia e unico agglomerato dell’isola, vi sono una ventina di costruzioni: tre sono taverne che offrono cibo di una qualità sorprendente a prezzi “greci”. Un piccolo molo consente al traghettino locale e a una decina di barche di attraccare.

Ed ecco il racconto di un nostro passaggio da Archì di tanti anni fa.

Entriamo ad Augusta di primo pomeriggio e accostiamo alla banchina.

A una ventina di metri dalla nostra poppa vi è la taverna gestita da Nectarìa, una giovane donna alta e asciutta: un bel viso dai lineamenti regolari e un corpo che sprizza energia da tutti i pori. Ha movimenti rapidi e nervosi e attende agli avventori del suo locale in modo sbrigativo, quasi rude. Verso sera, quando il lavoro aumenta, la si vede andare avanti e  indietro sotto il pergolato dove siedono i clienti, trasportata dalle lunghe gambe a una velocità che ha del sorprendente, con l’atteggiamento di chi sta andando ad aggredire qualcuno.

Mi siedo al tavolo e ordino un caffè frappé. Quando Nektarìa me lo serve mi punta gli occhi addosso con fare quasi minaccioso: «Ego se ksero…» ti conosco, tu sei già stato qui, parlavi spesso con il maestro. Sì, in uno dei miei passaggi da Arkì avevo conosciuto nella taverna di Nectarìa il maestro del luogo, un giovane che sembrava trascorrere la maggior parte del suo tempo seduto a un tavolo sotto il pergolato.

Avevamo parlato di tante cose. Ricordo che era interessato all’immagine che avevano i greci in Europa, non ne era orgoglioso. Un fatto mi aveva sorpreso: la sua scolaresca era composta da un solo allievo. Sì, ad Archì c’era la scuola elementare, ma mancavano bambini che vi soggiornassero in inverno.

Quella sera due compagnie di turisti giunti in barca rallegrano l’atmosfera con canti e balli. Con loro c’è Gianni, una vecchia conoscenza di Samos, un tempo capetto del porto di Pithagorion, oggi titolare di una piccola impresa di charter. Partecipa con coinvolgimento alle danze di gruppo…poi si siede vicino a me…ci rivedremo a Samos a giorni. Più tardi una giovane greca bene in carne e dalle forme decisamente femminili si lancia in una danza scatenata monopolizzando gli sguardi dei presenti. La osservo attentamente e mi dico che potrebbe essere una ballerina professionista. Poco dopo conclude il suo piccolo show con una bella spaccata… professionale.

Ed è proprio qui, ad Arkì che, in uno dei nostri passaggi di tempo fa con Amaltea, abbiamo imbarcato un ospite indesiderato di cui avremmo dovuto occuparci alcuni giorni dopo.

Archì conserva ancor oggi il fascino di allora, anche se col passare degli anni, sono sorte, nei pressi di Augusta, alcune case di vacanza e, all’ingresso della baia, è stato realizzato un corposo molo per i traghetti.

Il locale di Nektarìa è stato ceduto e il nuovo proprietario vi ha aperto un bar con ombrelloni parasole in paglia in stile “caraibico”, annesso ad un emporio di articoli per turisti di passaggio…un segno dei tempi…cui nemmeno la piccola  Arkì ha saputo sottrarsi…

LEROS

Mappa di: Lero, Leros 854 00, Grecia
Isola di Leros

Isola di Leros

Nella mitologia Leros è legata ad Artemide, la crudele dea della caccia e dei boschi, figlia di Zeus e di Latona e sorella di Apollo. A Partheni , nei pressi della costa settentrionale, vi sono i resti di un tempio a lei dedicato.

L’isola fu abitata in un primo tempo dai Carii. Omero racconta che Leros partecipò con alcune navi alla guerra di Troia. Conquistata poi dai Dori, finì in seguito sotto l’influenza, prima dei Persiani e poi, durante la guerra del Peloponneso, sotto quella di Atene e di Sparta. In epoca ellenistica fu bizantina e, nel XIII secolo, divenne territorio dei Cavalieri di S. Giovanni. I Turchi la presero nel XVI secolo e vi restarono 400 anni. Dal 1912 possedimento italiano, fu incorporata nella Grecia liberata al termine della seconda guerra.

Un’isola di confine con una storia tormentata, dunque. Nel corso dei secoli vittima di pirati e di conquistatori, è stata in numerose circostanze e fino a tempi recenti, luogo di internamento per dissidenti politici. Ha inoltre ospitato un noto e malfamato manicomio. E ciò è rimasto nella mente di molti. Ricordo che quando, tempo fa, dicevo a qualche greco che frequentavo Leros, ne ricevevo espressioni di meraviglia…cosa vai a fare lì ? E’ il posto dei matti !.

Qui di seguito il racconto di un nostro arrivo a Leros nel 2005, provenienti da Levitha.

Ingresso nella rada di Vathì

Ingresso nella rada di Lakki

Dopo un’ora di navigazione da Levitha ci appare in lontananza l’alto profilo di Kalimnos, l’isola dei pescatori di spugne. Poco più a nord la sagoma più bassa di Leros.

Entrai per la prima volta nella grande rada di Lakkì, porto principale dell’isola, nel febbraio del 1985 col primo Maria Vittoria, proveniente da Rodi, dove labarca aveva svernato. Non avevamo a bordo nessuna delle pubblicazioni oggi tanto diffuse che, oltre a dare indicazioni d’interesse nautico, propongono qualche elemento storico e mitologico o curiosità dei luoghi.

Rada di Vathì base navale italiana durante l’occupazione

Rada di Lakkì base navale italiana durante l’occupazione

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Parte interna della rada di Lakkì

Interno della rada di Lakkì

Così, quando, percorso l’imponente canale d’ingresso, mettemmo la prua nell’ampia rada, rimasi sorpreso e perplesso. Il paese che ci si presentava aveva ben poco di greco. Mi ricordava però qualcosa di familiare. Misi mano al binocolo: un imponente lungomare delimitato da grandi paracarri uniti da un grosso tondino che li attraversava a metà altezza, un imponente palazzo bianco in uno stile che mi pareva di conoscere: qualcosa di già visto. Seppi poi che era eretto nel così detto “coloniale moresco “, stile adottato dal fascismo dopo le campagne d’Africa.

Municipio di Lakkì

Municipio di Lakkì

A un incrocio una costruzione con porticato e angolo stondato, poi, poco oltre, un edificio le cui opposte pareti rettilinee erano collegate da due muri a base semicircolare. Su quello prospiciente la rada c’era l’ ingresso affiancato da due colonne. Ma sì, era un cinematografo, come quelli che si vedevano sulla costa romagnola quando ero piccolo. Poi una costruzione con stretti archi su alte strutture rettilinee. Un accostamento di elementi architettonici tipico dello stile razionalista, adottato, nel ventennio, per la costruzione di agglomerati urbani ex novo: le città di fondazione.

Cinematrografo di Leros

Cinematografo e teatro di Lakkì

Scuole di Lakkì

Scuola di Lakkì

Torre dell’orologio

Torre dell’orologio

Poco dopo, sbarcato, notai evidenti simboli del nostro ventennio incastonati sulle pareti di alcuni edifici

Guardia di finanza

Guardia di Finanza

Regia Dogana

Regia Dogana

Presi a noleggio un motorino e feci il giro dell’isola. Anche in altri centri di Leros, a Pandeli, a Platano, ad Agia Marina, erano presenti costruzioni dell’epoca, erano abitazioni di un certo livello, che si staccavano dallo schema architettonico degli edifici pubblici attorno al porto. Erano probabilmente destinate a funzionari o ad alti ufficiali che vivevano lontano dalla truppa.

Vista di Pandeli. Il castello e i mulini sullo sfondo

Vista di Pandeli. Sullo sfondo il castello e i mulini

Agia Marina dall’alto

Agia Marina dall’alto

Agia Marina dal mare con il castello sullo sfondo

Agia Marina dal mare con il castello sullo sfondo

Scorrazzai fino a sera percorrendo stradine sterrate che portavano verso il mare, che si inerpicavano sui rilievi, fermandomi a osservare abitazioni e preziose ville che avrei potuto incontrare in una qualunque località italiana, in Liguria, in Romagna, nella mia città… Era facile riconoscerle: avevano colori vivaci, erano gialle, azzurre, color seppia, alcune erano del rosso di cui un tempo si pitturavano i caselli dell’Anas, in netto contrasto con il bianco delle costruzioni greche.

Scoprii cose interessanti…L’altura che si erge appena a nord dell’ingresso a Lakkì presentava numerose gallerie, alcune in comunicazione fra di loro. Vi erano basamenti di cemento su cui verosimilmente un tempo erano sistemati pezzi d’artiglieria che erano stati fatti saltare con esplosivo. A nord dell’isola, seguendo un sentiero che, dopo aver costeggiato un’ampia baia, si inerpicava su un promontorio, mi trovai di fronte ad un edificio del ventennio utilizzato da un pastore come ovile. Sul fronte una scritta a lettere incise a macchina nel marmo, che qualcuno aveva cercato di cancellare riempiendone le cavità con del cemento, e ottenendo il risultato di metterle in ulteriore evidenza. Diceva: «Siamo orgogliosi di occupare un posto di combattimento, di sacrifici e di dovere». Una retorica inconfondibile.

Quando, a sera, riconsegnai il motorino, mi intrattenni a lungo con il noleggiatore, un uomo sulla sessantina privo di una mano e che tutti coloro che hanno trascorso qualche giorno a Leros conoscono, in quanto era il solo noleggiatore di Lakkì, e il suo negozio era proprio sulla via che costeggia il porto : Costantinos. Parlava un italiano pressoché perfetto avendo frequentato la nostra scuola che al tempo dell’occupazione era obbligatoria per i greci del Dodecaneso. Mi raccontò tante cose, mi confermò che i basamenti che avevo visto erano il supporto di pezzi d’artiglieria che gli inglesi avevano fatto saltare alla fine della guerra. Mi disse dei terribili scontri armati dell’ultimo conflitto: i tedeschi contro gli italiani, poi gli inglesi contro i tedeschi. E i bombardamenti. Ricordava i bengala su Agia Marina illuminata a giorno e poi gli scoppi: un inferno!

Gli italiani avevano fatto tante cose buone per l’isola: strade, costruzioni pubbliche ancora in uso, un piccolo ospedale, avevano bonificato parti del territorio, installato tre potenti generatori dell’Ansaldo, enormi motori a dodici cilindri; due erano ancora funzionanti…

Mi raccontava di un porto frequentato da tante navi da guerra e da trasporto, di una grande quantità di materiale da costruzione scaricato sulle banchine, poi dei Mas, della base degli idrovolanti nella parte sud est della rada. Lì si poteva vedere ancora una delle gru utilizzate per la loro movimentazione. Mi diceva di una costruzione a settori che fungeva da radar acustico…da dove una persona addestrata e di buon udito poteva percepire a distanza l’approssimarsi di aerei e la direzione da cui provenivano.

Mi diceva che correva denaro a Leros quando c’erano i nostri soldati. C’era lavoro ben pagato, i bambini andavano a scuola, quella costruzione lì vicino era l’hotel Roma… poco più in là, in fondo alla baia, c’era il pornìo, la casa di tolleranza più lussuosa di Grecia. Erano 30.000 gli italiani che vivevano sull’isola ed erano quasi tutti maschi, un gran daffare per le ragazze.

Mentre questi pensieri mi scorrono nella mente, Amaltea giunge nel piccolo marina. Ormeggiamo. Vado a dare un saluto a Costantinos. Lo trovo affranto. Ha perso la moglie da una settimana: asma. Qualche frase di circostanza, poi parliamo a lungo, ancora della guerra, poi del lavoro, poi mi propone una versione dell’incidente in cui ha perso la mano diversa da quella datami tanti anni prima.

Quando ci accomiatiamo, dopo una bella ora di colloquio, mi si rivolge prima in greco, poi in italiano. Noto che il saluto nella nostra lingua suona molto diverso: è come se forzasse sul diaframma per emettere un suono più forte, come ho sentito fare talora da vecchi militari…e non solo: forte e chiaro. Mi dico che anche quel tono della voce faceva parte della retorica di quei tempi: frasi di poche, precise parole ad effetto, pronunciate con voce stentorea. Anche questo si ritrova in Grecia.

Prima di lasciare l’isola cerco di mettermi in contatto con Goeran Schildt, lo scrittore svedese autore di Vent’anni di Mediterraneo e grande estimatore della Grecia, che ha una casa a Leros. Nella guida telefonica trovo la “S” di Schildt sotto la sigma. Nessuno risponde. Vado da Costantinos, gli chiedo dove abita lo svedese, mi accompagna a casa sua; non c’è nessuno. Peccato! Mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Sarà per la prossima volta. Credo proprio che sarà un incontro piacevole: di solito le persone che hanno interessi comuni, che amano le stesse cose, si intendono.

Da quell’incontro con Costantino sono trascorsi quattordici anni. Lui non c’è più, l’attività è passata al figlio Gianni , che l a gestisce insieme alla moglie Irini e al figlio Costa. Persone squisite, sempre disposte ad aiutare chi si rivolge loro. Quando passo davanti al loro negozio, a volte entro anche se non mi serve nulla…Lì si respira ancora l’aria del vecchio Costantino, col suo modo tanto particolare di salutare nella nostra lingua…ricordo di un’Italia d’altri tempi.

Tanto altro potremmo raccontare su Leros e sulla sua tormentata storia, ma sono certo più indicati di me a farlo Cettina ed Enzo, responsabili della Aial, l’Associazone italiana Amici di Leros, due medici che, partiti per un giro del mondo in barca, sono approdati qui e vi sono restati. Sono sempre pronti a dare una mano a chi ne ha bisogno e ad aiutare chi muove i primi passi sull’isola.

LEVITHA

Levita . In alto a destra la baia con le boe

Questo testo è tratto dal nostro libro “ Amaltea – a vela da Trieste al Grande Sud” pubblicato dal Frangente. E’ stato scritto nel 2005, al nostro rientro dal giro del mondo.

Levitha è una piccola isola una trentina di miglia a est di Amorgòs, la più orientale delle Cicladi, e venti a ovest di Leros nel Dodecaneso. Il profilo delle sue alture è dolce, collinare. Quello delle sue coste sembra tracciato da una mano incline a raccordare le spigolosità. Pur in presenza di una rada vegetazione mediterranea, in avvicinamento dà l’impressione di una terra totalmente arida.

 La baia con le boe poste dalla famiglia che abita l’isola

Sulla sua costa meridionale si apre una baia ben ridossata da tutti i venti, il cui braccio principale si protende verso est. Alla sua estremità una decina di boe con corpi morti facilitano l’ormeggio. Appartengono alla sola famiglia che vive sull’isola.

A circa 500 metri dalla riva nord della baia, in un recinto in muro a secco accuratamente eretto, vi è la loro abitazione con annessa taverna e poche altre costruzioni fra cui fa spicco una minuscola cappella. I muri sono stati trattati da poco con calce. Il tutto suggerisce pulizia e cura; un nitore, certo, inatteso da chi getta l’ancora in una sperduta isola dell’Egeo.

La famiglia vive di allevamento, di pesca e di turismo. In ampi recinti di pietra, che delimitano gran parte della superficie dell’isola, allevano alcune centinaia di pecore e qualche capra. Una barca da pesca consente loro di calare le reti nelle vicine acque e di rifornire di preziosa materia prima la loro taverna che è molto frequentata, se si tiene conto del fatto che l’isola è raggiungibile solo con mezzi propri.

Non ricordo quando detti fondo per la prima volta a Levitha, ma fu almeno una ventina di anni fa. Trovai intrigante la piccola isola con i suoi pochi abitanti. Vi sono ritornato una decina di volte e sempre mi sono ritrovato a pensare che era un gran bel posto, un ancoraggio sicuro e suggestivo.

 

Ci prendiamo alla boa più esterna e stendiamo un poppese. Dopo una breve passeggiata sulle alture, giungiamo davanti al cancello del recinto dove sono le costruzioni; è chiuso, do un richiamo alla voce. Poco dopo appare sulla soglia una giovane donna che ci viene incontro sorridente.

La riconosco: è Maria, la figlia di Dimitrios. Si è fatta ancora più carina dall’ultima volta. Mentre scambiamo qualche parola e prenoto un tavolo per la sera, mi dico che non ha proprio nulla della figlia di un allevatore-pescatore di una sperduta isola dell’Egeo: ha una figura slanciata, un portamento eretto, lineamenti fini, una naturale disinvoltura, un bello sguardo diretto ed è ben vestita. Ci sorride con naturalezza e prende nota della prenotazione.

Nel pomeriggio numerose barche giungono nella baia, e quando cala il sole se ne sono radunate sedici. Alcune si sono accostate l’una all’altra allo stesso galleggiante. Un paio sono poco più lontano all’ancora. A sera la taverna è al completo. Gli avventori sono quasi tutti giovani e la sola lingua che si sente parlare è la nostra.

Scorcio della taverna

I figli di Dimitrios, Stavros e Tassos, si muovono veloci fra i tavoli ad accudire i clienti. Il più giovane mi fissa e: «Ego se ksanaìda, den íne i próti forà pu érchese edó» io ti ho già visto, non è la prima volta che vieni qui. Gli chiedo del padre: è a Patmos per certi affari, ma è atteso per l’indomani. Ritorniamo alla barca a notte inoltrata camminando su un tratturo illuminato dalla luce di una luna quasi piena.

 Il mattino successivo incontro il capofamiglia nella taverna. È un bell’anziano, con vivaci occhi scuri e tanti capelli bianchi che gli incorniciano il volto. Ha un sorriso aperto e, dopo le prime frasi, mi invita a sedermi a un tavolo e mi offre una birra.

Parliamo della vita sull’isola, della loro attività, dell’allevamento… Settecento ovini, della pesca… giusto i pesci per le esigenze della taverna… Ogni settimana va a Patmos a rifornirsi, tre ore e un quarto con mare calmo… Sì, la loro è una bella barca, un British Leyland prodotto in Polonia, 130 cavalli senza turbo, una bella macchina. L’elettricità è prodotta con pannelli solari e con un paio di generatori eolici, ma hanno anche un bel diesel che dà direttamente i 220 volt. L’acqua potabile è un problema, ce n’è poca. I turisti sono benedetti, portano lavoro e soldi e sono mediamente persone educate, però alcuni giovani scaricano le immondizie nonostante i cartelli; qui l’eliminazione dei rifiuti è un problema, ma bisogna portare pazienza.  Quest’anno gli italiani sono stati numerosi, il novanta per cento… No, non è lui che si è stabilito sull’isola, c’era già suo padre, e prima il nonno e il bisnonno; i figli sembrano intenzionati a restare.

Mi chiede poi da dove veniamo, gli dico del nostro viaggio. Fa occhi grandi, è curioso, vuole sapere tante cose. Non si capacita di come sia possibile, tre anni lontano da casa… Io sono in pensione, mia figlia fa medicina e non era interessata all’attività. Mi dice che se avessi avuto figli maschi che volevano continuare non avrei potuto: «Étsi ke alliòs megàlo epìtevgma ine» comunque una bella impresa. Gli dico che è più facile di quanto non si creda; sorride non convinto.

Mi chiede perché conosca la loro lingua, gli rispondo che è il frutto di un grande amore, no, non per una donna, per il loro Paese, per quella luce, quel vento, quella terra. Chiama suo figlio, gli dice di ascoltare. Il giovane sorride, pensa che parli così per compiacerli. Non lo dico per non sembrare eccessivo, ma penso proprio che se si esclude il Grande Sud, che certo mi è entrato nell’anima, ma che per la sua incontestabile particolarità non è confrontabile con nessuno degli altri ambienti naturali che conosco, la Grecia mi affascina più di tutte le terre che abbiamo toccato nel nostro viaggio attorno al mondo. Col passare dei minuti la corrente di simpatia reciproca aumenta, si parla di tanto altro…

Sì, lo straniero era sacro nell’antica Grecia. La disponibilità verso di lui era grande e ora, in una sperduta isola dell’Egeo abitata da una sola famiglia di pastori-pescatori, mi sembra di toccarla con mano, come ad Auckland, in compagnia di Nikos, l’arguto e curioso console greco, con Eleni, l’affascinante signora del ristorante, come a Buenos Aires con il responsabile della migliore churrascheria della città, greco di Sparta, come a Darwin con il falegname di Kàlimnos, come… 

Quando ci lasciamo Dimitrios e il ragazzo sono sul cancello. L’uomo mi dice di ritornare quando ci sarà meno confusione, che potremo parlare a lungo, che Levitha è uno splendore in bassa stagione, soprattutto in primavera, che mi porterà a pesca, che gli piacerebbe visitare la nostra barca, che Amaltea è quasi bella come la loro.

Ci allontaniamo: «Kalò taksìdi, na ìse kalà» buon viaggio, stammi bene. «Efcharistò tha ta pume» grazie, arivederci. Ritorniamo su Amaltea.

Siamo poi ritornati più volte a Levitha e abbiamo sempre apprezzato profondamente il posto: il luogo e le persone. Da allora è cambiato ben poco: il numero di barche che  frequentano l’isola  è un po’ aumentato, ma l’atmosfera che vi si respira è sempre la stessa, quella di un mondo rurale, vicino alla natura, dove i punti di riferimento  sono le greggi, la pesca, la cura di una modesta ma gradevole taverna  e più ancora sane relazioni fra i componenti della famiglia, che sembrano cementarsi attorno al comune amore per la loro isola, per quel loro mondo.

Il mulo di Levitha

Vi racconto una divertente storiella. Sbarcati sulla banchina dei dinghi, c’era una novità: una  stradina lastricata che saliva  verso il ristorante. Un centinaio di metri più sopra, però, quella stradina finiva nel nulla. Scavalcato il muro di recinzione di un campo coltivato a foraggio, ci dirigiamo verso le case ben in vista  più in alto. Poco dopo individuiamo il vecchio tratturo al di là di un’altra recinzione provvista di uno steccato apribile.  Quando ci accostiamo per togliere le cimette che lo tengono chiuso, scende verso di noi, in un veloce trotto, un grande mulo. Ci si para dinanzi e scalpita con le zampe anteriori. Il segnale è chiaro: di lì non si passa. Poi si tranquillizza, si lascia accarezzare, accetta qualcosa di dolce che gli porge uno di noi…ma, quando ci riavviciniamo allo steccato, ricomincia a scalpitare. Cambiamo sentiero. Poco dopo, seduti a tavola  per la cena,  racconto a Stavros  l’esperienza appena vissuta. Sorridendo il ragazzo mi dice che quel mulo è un animale intelligente, che si è assunto il compito di guardiano, che reagisce in quel modo quando vede sconosciuti che mettono mano ai loro steccati. Non ha ancora terminato la frase che il mulo entra nella zona pranzo. L’animale è tranquillo, ma, nello spazio limitato destinato ai tavoli, sotto la bassa  tettoia di cannette che lo ricopre, sembra ancora più grande e qualche avventore si spaventa. I ragazzi convincono con calma e pazienza il mulo, riluttante, ad uscire.  Più tardi, quando ci serve a tavola, sorridendo Stavros mi dice” Den borì kanis na kserei…” non si può sapere cosa veramente ha in testa un animale, ma potrebbe essere venuto qui per controllare se siete venuti a cena da noi.

Quando siamo passati da Levitha l’ultima volta, due anni fa, ho incontrato Stavros sulla soglia della cucina. Ho subito avvertito che il suo saluto era più mesto del solito: Dimitrios aveva avuto un ictus mentre portava in cucina il pesce che aveva grigliato, come faceva ogni sera. Un elicottero lo aveva trasferito ad Atene; non si sapeva se e come sarebbe sopravvissuto.

In quel momento mi sono tornate alla mente le parole con cui Dimitrios aveva preso a salutarmi da qualche tempo. Ci conoscevamo da molti anni e avevamo raggiunto l’età in cui i segni del tempo che passa sono chiari anche nel breve…e allora, dopo i saluti , Dimitrios stringeva il pugno della mano destra e mi diceva :“Skliròs, na ìse skliròs”( in greco “skliròs” significa “duro”) come dire “Gli anni corrono, ma noi dobbiamo tener duro…resistere…”. Mi auguro proprio di poterlo rivedere Dimitrios,  col suo vassoio colmo di pesce,  andare e tornare  fra la cucina e la sua graticola.

KOS

Cartina di Kos

Cartina di Kos

Poche miglia a Nord di Nysiros e di Yali, si trova Kos, un’isola oblunga disposta per latitudine, molto frequentata dal turismo. E’ accertato che un terremoto verificatosi a Kos in epoca remota fece emergere  Nysiros, Yali e altre piccole isole vicine.

Nella mitologia a Kos si erano rifugiati i Giganti sconfitti nella lotta contro gli dei dell’Olimpo. Qui Poseidone scovò Polibote e scagliò su di lui una parte dell’isola, sommergendolo sotto la valanga di fango e sabbia che diede origine a Nysiros.

Poseidone contro i Giganti

Poseidone affronta i Giganti

La mitologia collega inoltre Kos ad Eracle, figlio di Zeus e di Alcmena che il dio aveva avvicinato assumendo le spoglie del marito Anfitrione. Il frutto di quella unione era inviso alla gelosissima e vendicativa moglie di Zeus, Era, che tormentò Eracle con numerose infauste prove. Una di queste fu una terribile burrasca che sorprese la nave dell’eroe al ritorno da Troia, dove era andato a punire Laomedonte, reo di non aver soddisfatto la promessa di donargli i cavalli di Zeus. L’imbarcazione, spinta dal vento impetuoso e dalle onde si arenò su una spiaggia di Kos. Eracle sottomise l’isola e ne diventò padrone.

 In seguito, guidato da Athena , aiutò gli dei olimpici nella vittoriosa lotta contro i giganti …perché così doveva essere: non un  dio, ma solo un umano o un semidio come lui  poteva sconfiggerli. Ed è così che un tempio dedicato a Eracle è oggi presente sull’isola.

 I primi ad abitare Kos furono i cari, cui seguirono i fenici e gli achei. Omero narra che Kos prese parte alla guerra di Troia con un cospicuo numero di navi. Ma il momento di maggior sviluppo dell’isola fu il IV secolo a.C, quando divenne uno dei porti più importanti del Dodecanneso. Fu in seguito conquistata dai genovesi e dai veneziani, poi soggetta ai Cavalieri di San Giovanni che costruirono l’attuale castello e la difesero lottando strenuamente contro i pirati. I Turchi la sottomisero nel XVI secolo, vi restarono 400 anni e vi eressero numerose moschee.

 Nel 1912  Kos, come le altre isola del Dodecanneso, fu occupata dagli italiani, accolti dalla gente del luogo come liberatori dal giogo ottomano che  aveva  duramente oppresso la popolazione. In seguito, tuttavia, sorsero malcontenti dovuti alla pretesa degli italiani di imporre la loro lingua e la loro religione. Kos visse poi il dramma di tanti nostri giovani soldati  fucilati dai tedeschi come traditori.

 Al termine della seconda guerra gli inglesi occuparono l’isola fino alla conferenza di Parigi quando fu aggregata alla Grecia liberata.

A Kos si può notare una vera e propria stratificazione delle culture che vi si sono insediate nel corso dei secoli…. con la particolarità, inoltre, che ogni nuovo occupante era solito vandalizzare i monumenti e le costruzioni dei precedenti, utilizzandone i materiali per realizzare le proprie opere.

All’entrata del castello degli austeri cavalieri di S. Giovanni vi sono, per esempio, infisse nelle mura, le maschere ridenti del teatro greco che rappresentavano il folle, il riso, l’ira… I bastioni del castello prospicienti il porto mostrano, incastonate, rotonde sezioni di colonne greche.

 Sulla base della moschea che dà sulla piazzetta del ponte levatoio è infisso un bassorilievo raffigurante il Leone di S. Marco. Fra la moschea e il vicino grande Platano di Ippocrate c’è la fontana delle abluzioni formata da tessere di marmo di età romana.

Nella zona delle ville romane vi sono marmi trafugati da templi greci.

Gli italiani, infine, lasciarono, come in altre isole del Dodecanneso, costruzioni pubbliche in stile “ coloniale fascista”, derivato dal moresco, come  la casa del podestà, e il mercato della frutta nella piazza del centro storico. E, accanto a costruzioni in stile coloniale , certo, lasciarono anche edifici in stile razionalista, ben più presenti su altre isole.

Pochi luoghi presentano, come Kos, dunque, tanti stili architettonici diversi, in gran parte in commistione fra loro.

Un personaggio il cui nome è strettamente legato a quello dell’isola è Ippocrate, che molti definiscono il padre della medicina moderna. A pochi chilometri dalla città di Kos si trova il suo l’ospedale dedicato a Esculapio, dio della medicina, da cui la famiglia di Ippocrate pretendeva di discendere.

La medicina

La medicina

Riassunse le esperienze delle scuole precedenti e fece avanzare lo studio sistematico della medicina. Convinto che la salute dell’individuo non dipenda da agenti esterni né dall’intervento divino, e che l’uomo sia provvisto di una sua “forza curatrice naturale”, sostiene che il compito del medico sia di assecondarla, considerando le abitudini del paziente. Praticò la dissezione dei cadaveri per studiarne l’anatomia, introdusse l’anamnesi …scoprì i poteri dell’acido salicidico…. Fra l’altro è noto per aver codificato l’etica medica nel “giuramento di Ippocrate”, ancor oggi in vigore.

Una vista dell’ospedale di Ippocrate

L’ospedale di Ippocrate

Il porto di Kos è un bacino circolare sulla costa orientale dell’isola e ha un ingresso da nord-est relativamente stretto. Lo si direbbe un luogo dove lasciare in tutta tranquillità la propria barca. Ma non è così: quando passano davanti all’entrata i grandi ferry della linea Atene- Rodi , entra un’onda che prende di traverso le barche ormeggiate sul molo nord , facendole rollare violentemente. Alcuni naviganti hanno subito serie avarie alle attrezzature e qualcuno ha anche perso l’albero nel contatto con quello del vicino. Ma al di là di questo aspetto, in quel bacino che pare così ben protetto riescono ad entrare venti da sud e di temporale di grande intensità. In qualche caso hanno creato delle difficoltà anche a noi.

Un inverno di alcuni anni fa eravamo nel porto di Kos, all’ancora con le cime di poppa a terra. Improvvisamente si alzò un temporale che portò pioggia e un violento vento di traverso. La nostra ancora prese ad arare e Amaltea arretrava verso il molo scadendo sottovento con la prua. Per nostra buona sorte da quella parte c’era banchina sufficiente a ricevere la barca e riuscimmo a riormeggiare all’inglese senza eccessiva fatica.  Terminata la manovra ci affrettammo a dare una mano ad un russo, solo a bordo, che cercava di tenere, a forza di braccia, la sua imbarcazione scostata dal molo. Gli urlai di provare ad alare sull’ancora ma non capiva e continuava a ripetere” That’s o.k., thath’s all right”. In conclusione il nostro equipaggio , sferzato dal vento e dalla pioggia, restò lì a premere sulla poppa del russo fino a quando il temporale decise di allontanarsi e fu in grado di ormeggiare la sua barca alla murata di Amaltea. Nel frattempo fra i vicini si era creato il panico, non tutti erano riusciti ad evitare il contatto con il molo e le loro poppe ne portavano il segno.

Un ulteriore motivo di disagio, quando si è ormeggiati a Kos, è che le grandi imbarcazioni per il trasporto di turisti, che si ormeggiano con la poppa alla banchina della parte sud del porto, a volte calano la loro linea di ancoraggio sopra quelle delle barche da diporto accostate sul lato est. E fu così che, in un’altra circostanza, un giovane inglese si ritrovò nell’impossibilità di salpare. Ci rivolgemmo alla capitaneria, che prese contatto con il responsabile della grande barca. Ci risposero che qualcuno sarebbe venuto il giorno successivo per vedere cosa si poteva fare. Ma non venne nessuno. Un sub professionista ci disse che non riusciva a raggiungere l’ancora , abbondantemente affondata nel fango, che non restava che abbandonare il tutto e procurarsi un’altra linea di ancoraggio. Ma il giovane inglese non era disposto ad arrendersi: indossò muta e bombole e, scavando con le mani raggiunse la cicala del suo ferro, la smanigliò e fece passare nell’ancora una cima che alammo con il verricello di Amaltea. Poi l’inglese recuperò la catena che, liberata dal ferro , si sfilò agevolmente da sotto quella del traghetto, mentre un greco che passava a remi ci urlava che avrebbe denunciato la cosa alla capitaneria. (In Grecia non è permesso immergersi nei porti). Più tardi a bordo qualcuno disse che se non l’avessimo recuperato, il ferro dell’inglese non sarebbe restato lì a lungo, il sub sarebbe ritornato a recuperarlo…per sé.

Vi sono a Kos alcuni luoghi a noi particolarmente cari.

Uno di questi è il Cafenìo Aigli, sulla piazza del centro storico, vicino al mercato della frutta e alla moschea. Lì, a sera, si ritrovano gli anziani del paese. Alcuni parlano ancora italiano e ci piace ascoltare le storie che hanno vissuto al tempo dell’ occupazione… non erano male i nostri ragazzi, ma certo che i capi a Rodi, in particolare quel De Vecchi…ne hanno fatti di guai…

Un ristorante che frequentiamo è il “Mama’s Cooking” in una via a nord-ovest del porto, a poche decine di metri dalla banchina. E’ gestito da un giovane simpatico che presenta il menu, se glielo chiedi, ma poi, qualunque cosa tu decida di mangiare, ti convince a scegliere piatti che sua mamma ha preparato per quel giorno, col risultato di portarti sempre cose gustose… Un altro è il Kritikò, (il Cretese), che offre, come specialità del locale, le “Salingaria”, le lumache con guscio che erano un piatto prelibato dei romani. Si trova non lontano dal mercato della frutta, verso l’interno, ai piedi della scala che porta alla vecchia basilica.

Un altro luogo che in cui ci rechiamo spesso è la rada di Kèfalos, sulla costa sud-ovest dell’isola. E ’ben protetta da nord e da ovest e, anche quando c’è vento fresco, non vi si forma onda fastidiosa. E’ quindi frequentata da surfisti e da appassionati di derive e catamarani. E’ provvista di una lunghissima spiaggia con bassi edifici balneari, ristoranti, bar e disco; sullo sfondo una zona collinosa con vegetazione mediterranea.

Vicina all’aeroporto è il luogo dove ancoriamo per imbarcare e sbarcare gli amici che ci raggiungono per qualche giorno di vacanza su Amaltea.

 

NISYROS

Nisyos con Asypalea , kos. Più a nord Kalymnos e Leros

NISYROS YALY KOS

La leggenda narra che, nella lotta fra le  divinità olimpiche  e i giganti, Poseidone, fratello e alleato di Zeus , scagliò un lembo dell’isola di Kos sul gigante Polibote sommergendolo sotto una montagna di arena e fango che formò l’isola di Nisyros. Scosse telluriche e attività vulcanica furono nell’antichità attribuiti ai tentativi di Polibote di scrollarsi l’isola di dosso.

NISYROS L’lSOLA VULCANO

Nisyros fu abitata fin dall’età del bronzo e vi sono tracce di una successiva  presenza micenea. Nel V secolo a. C  Mausòlo, greco e satrapo di Alicarnasso, ne fece un presidio per il controllo del canale di traffico e vi costruì una fortezza le cui mura ciclopiche, di una sorprendente fattura, si possono ammirare appena sopra il villaggio di Mandraki, centro principale di Nisyros . Sorgenti  termali d’acqua sulfurea presenti sull’isola sono state utilizzate come rimedio per diverse malattie fin dai tempi di Ippocrate.  I romani vi realizzarono veri e propri  bagni termali molto frequentati. All’inizio del secondo millennio Nisyros divenne veneziana, poi passò ai Cavalieri di S. Giovanni e, nel 16. secolo agli ottomani. Nel 1912 fu occupata dagli italiani che vi restarono fino alla fine della seconda guerra. Si unì poi ai territori della Grecia liberata.

La piccola isola è un cono vulcanico di incredibile fascino. Fino a pochi anni fa era sostanzialmente ignorata dal turismo,  che sta ora prendendo velocemente piede, attratto in particolar modo dalla facile discesa nel cratere ricco di “fumarole”, e dalla splendida vallata della caldera, in gran parte sorprendentemente verde.

LA CALDERA

Ma il vulcano “dormiente” è solo una  delle attrattive del luogo. Contrariamente a quanto avviene per quasi tutte le isole del Mar Egeo, il colore predominante di Nisyros, che balza all’occhio a chi si avvicina dal mare, è il verde di una fitta vegetazione sorta su una terra ricca di sali minerali,  fertile e coltivata anche sui terreni scoscesi grazie  alle diffuse terrazzature realizzate  nel corso dei secoli. L’isola produce in grande quantità mandorle utilizzate per la preparazione della Sumada, una sorta di orzata, della Scordalià , di vari dolci e di altri alimenti.

Nysiros ha all’incirca 1500 abitanti che vivono per lo più nel villaggio di Mandraki,  porto di attracco dei traghetti e centro principale , con la casa comunale e i servizi amministrativi  . E’ un delizioso borgo addossato ad un’altura su cui domina la chiesa di Panagia Spiliani ( Madonna della Caverna) e che si sviluppa sul fronte mare, con case bianchissime e infissi blu, come in  tanti paesi dell’Egeo. Vi sono poi, sul bordo della caldera, i due villaggi di Emporio  e di Nikià, che erano, in un recente passato, sostanzialmente abbandonati e che si stanno aprendo a nuova vita grazie a stranieri e a qualche locale, che ristrutturano abitazioni, talvolta in modo pregevole.

MANDRAKI

LUNGOMARE DI MANDRAKI

Sulla costa nord , poche miglia ad est di Mandraki, vicino alle terme di Thermani, sorge  il piccolo borgo di Pali con un grazioso porticciolo che ospita barche turistiche e piccoli scafi locali. Alcune taverne che si affacciano sul bacino offrono gustosi piatti tipici a prezzi modesti.

PORTICCIOLO DI PALI

E’ qui che, tanti anni fa, ebbi il primo incontro con l’isola. Venivamo da Rodi, dove la nostra barca, il Maria Vittoria,  aveva trascorso l’inverno, ed eravamo diretti a Kos. Quel cono vulcanico ci incuriosì e cambiammo rotta. Entrammo a Pali; ricordo che vi erano  poche barche locali e qualche casa un po’ malandata.  A causa del basso fondale la nostra chiglia toccava a tratti il fondo. Decidemmo di spostarci  a Mandraki, dove trovammo un ormeggio approssimativo e poco protetto. Così Nisyros restò esclusa dalle nostre mete per alcuni anni . Poi, un giorno, un amico velista mi disse che a Pali avevano dragato.  Ritornammo, questa volta con Amaltea, e da allora Pali è diventata una delle nostre mete preferite.

A Nisyros abbiamo anche trascorso un inverno, ormeggiati all’inglese davanti alla taverna di Giorgos, il capitano. In quei mesi facemmo conoscenza con molti locali, tutte persone gentili, ospitali e  desiderose di comunicare, sempre pronte a festeggiare.

Ed ecco alcuni flash di esperienze vissute sull’isola.

 Era il giorno del matrimonio della figlia di un maggiorente locale. Il padre della sposa organizzò i festeggiamenti nella piazza che chiude ad ovest il bacino di Pali. Poiché l’evento lo riempiva di una grande gioia e considerava meschino  porre limiti al numero degli invitati, fece circolare la voce che tutti, ma proprio tutti, locali e turisti, sarebbero stati i benvenuti al pranzo di nozze. Fin dal mattino, sulla banchina del porticciolo, si vedevano persone che trasportavano tavoli e sedie dai ristoranti al luogo designato…nel primo pomeriggio la piazzetta era stipata all’inverosimile. Il seguito fu una cena con un numero incredibile di portate…lo sposo, esperto violinista, intrattenne a lungo i convitati con musiche locali e classiche…poi iniziarono le tradizionali danze greche mentre altri gruppi  si univano alla festa portando altri tavoli e altre sedie e, poiché non c’era più spazio libero, si sistemavano sulla via di accesso alla piazza. La festa si concluse con la luce del giorno. Non è dato sapere  Il numero di quanti parteciparono a quel pranzo di nozze, ma , all’inizio della serata erano già più di seicento…

Ed ecco un altro flash. In una delle prime visite a Pali, incontrai, nella taverna di Georgos, un locale cacciatore. Parlammo a lungo della sua passione, delle sue imprese, di fucili e di sevaggina . Il mattino successivo trovammo, sulla nostra coperta , quattro pernici…Lo invitammo ad una cena di cacciagione su Amaltea e ci ritrovammo in seguito  alcune volte da Giorgos. Poi una sera, parlando di caccia alle capre selvatiche, mi disse che la sua 22mm non era il fucile ideale, che gli sarebbe servito un calibro maggiore, che sapeva che in Italia c’erano molti produttori di fucili da caccia…per finire mi chiese se non potessi procurargli un moschetto con silenziatore. Mi venne il dubbio che le capre che cacciava non fossero proprio selvatiche, che magari avessero un padrone, altrimenti, perché il silenziatore??? Mi rispose che,  senza silenziatore, al primo colpo scappavano…ma mi restò un serio dubbio. Poi gli spiegai che il silenziatore è proibito, che se mi avessero preso con un moschetto fornito di quell’attrezzo sarei finito direttamente in galera… Rispose: ah, è proibito?

Un’altra curiosa conoscenza di Pali è Nikos. Quando ci conoscemmo guidava un pulmino che faceva servizio fra Mandraki e Nikià e dava una mano per la ristrutturazione della fortezza di Mausolo. Aveva una piccola barca da pesca con cui usciva spesso. Ritornava quasi sempre con  qualche preda interessante. Gli dissi che noi praticavamo un po’ di traina dalla barca, ma con poco successo. A volte allamavamo qualche pesce, ma raramente riuscivamo a portarlo a bordo. Mi invitò in un suo magazzino dove c’erano tante attrezzature da pesca, mi dette qualche consiglio su come utilizzare quelle per la traina e preparò due terminali con Rapalà che mi regalò.

Da quel giorno, quando vede Amaltea entrare in porto, si presenta con il suo originale mezzo di trasporto, un veicolo che attira l’attenzione dei naviganti in banchina che si avvicinano per ammirarlo, un’Apecar verde sulle  cui portierine ha scritto a grandi lettere 3X3 ( sulla scia del 4X4 di alcune auto) e poi, più sotto ” The fish killer” e ci chiede della pesca…

Tanto altro potrei raccontare sulle attrattive di Nysiros, potrei parlarvi della spiaggia su cui le tartarughe depongono le uova, dei numerosi monasteri, della preziosa piazzetta del comune, dell’”alternativo” che vive in una grotta al termine della strada ad est di Pali: realizza sculture con pezzi di legno portati dal mare, e sbarca il lunario vendendole in una mostra che organizza sulla spiaggetta di Pali, presentate su paletti infissi nella sabbia… Tanto altro potrei raccontarvi anche sul  nostro vissuto sull’isola, ma questo testo è già corposo così.

 Alla prossima isola, dunque.

ASTIPALEA

A chi osservi la carta dell’Egeo non può sfuggire Astipalia .  L’isola, costituita da due imponenti  corpi montuosi  uniti da un istmo, ricorda una farfalla ad ali aperte. Fra le ali , a nord, la baia di Sant’Andrea , a sud  quella di Maltezana, nome che ricorda la presenza, nella storia del luogo, di pirati maltesi.

E’ la più occidentale del Dodecanneso, ma, vicina alle Cicladi , è ad esse molto simile per natura del territorio e aspetto delle costruzioni. E’ riarsa e battuta da venti violenti.  Il predominante colore della terra nuda conferisce alla macchia mediterranea, presente in prossimità delle  baie della costa meridionale, un’evidenza e un fascino particolari.  

 Abitata prima dai fenici e poi dai Dori, fu in seguito colonia dei Tolomei d’Egitto. Divenne poi membro della Lega Attica, fu quindi romana e, con la separazione dell’impero,  bizantina. Nel XIII secolo, con la  IV crociata, divenne feudo dei Querini di Venezia. Il toponimo “ Astu Paleòs , città antica, fu allora occidentalizzato in Stampalia, e restò legato al nome della famiglia veneziana . I Turchi la conquistarono nel XVI secolo e la mantennero fino al termine della guerra italo-turca, quando, con  le altre isole del Dodecanneso, fu occupata dagli Italiani che vi restarono fino alla fine della seconda guerra . Al termine del conflitto ritornò territorio di una Grecia ormai liberata.

Riferimenti all’isola si trovano in Plinio il vecchio e in Terenzio Varrone che ne lodano la qualità delle lumache a guscio, un cibo prelibato per i romani , e raccontano della  presenza sull’isola di numerose lucertole, acerrime nemiche delle lumache.  Riferimenti alla pescosità delle sue acque sono presenti nella letteratura latina.

Sulla parte alta del corpo occidentale dell’isola vi è la Hora con il castello dei Querini e la caratteristica fila di mulini a vento,  che corre lungo il crinale. Il fitto abitato ricopre l’intero pendio orientale ,  giù giù fino al porticciolo con il molo dei traghetti.

Astipalia, Stampalia e Querini dunque, nomi che ci sono familiari.

 I Querini, duri e impietosi padroni  dell’isola per tre secoli, erano noti commercianti veneziani che si resero famosi  per una loro tragica navigazione verso i mari del nord Europa. La loro imbarcazione, costruita a  Cipro,  era stata giudicata dalle autorità competenti della Repubblica  inadatta alla navigazione a causa della qualità del legno scelto per alcune componenti dello scafo. Ciò non li fece desistere. Partirono incuranti della proibizione ufficiale a prendere il mare. Il viaggio fu un succedersi di drammatiche avarie che portarono  l’imbarcazione ripetutamente fuori rotta. Usciti in Atlantico furiose burrasche da nord  li  spinsero, a secco di vele,  fino alle Canarie. Dopo  anni di navigazione fra amare vicissitudini e lunghe soste per riparazioni , fecero naufragio  su una sperduta isola delle Lofoten, dove pascolavano delle mucche. Lì li trovò un locale in occasione di  un controllo alla mandria e  furono portati su un’isola vicina dove c’era un villaggio di pescatori . Vi trascorsero un intero  inverno. Vivendo a contatto con i locali scoprirono cose interessanti.

A intervalli regolari di giorni, gli abitanti correvano nudi verso una costruzione della comunità per uscirne poco dopo  e buttarsi nelle gelide acque del mare del nord. Era la sauna, ai tempi sconosciuta nel territorio della Repubblica.

Notarono anche che i locali facevano seccare il merluzzo pescato per poi venderlo al mercato di Bergen, in Norvegia anche mesi più tardi . Era dunque un prodotto che si conservava e poteva essere quanto mai utile sulle navi ,  contribuendo a risolvere il problema  che assillava i comandanti: il deperimento delle scorte alimentari. Tornati a Venezia in ordine sparso, li attendeva una multa salatissima, un duro colpo  alla solidità economica  della famiglia,  che sembrò mettere in  forse il prosieguo  della sua attività mercantile.

 Ma in qualche modo i Querini riuscirono a ripartire. Questa volta portarono a destinazione il loro carico e ritornarono con la stiva stracolma di stoccafisso, utilissimo, come detto , perché conservabile, ma   anche  per le sue qualità antiscorbutiche e quindi ancora più  prezioso. Seguirono altri numerosi viaggi, un  commercio che durò anni e che risollevò le sorti e l’onore della famiglia.  

Ed è così che oggi, a Venezia, la  Querini Stampalia è una delle fondazioni più note e apprezzate.

Astipalia è una delle isole più affascinanti della Grecia. Il moderato  turismo  ha offerto opportunità apprezzabili all’economia dell’isola, ma non ha stravolto la vita dei locali e il loro atteggiamento verso gli ospiti. Gradevole passeggiare nella parte alta della Hora, nei pressi dei mulini, salire al castello, sostare nelle taverne che conservano il sapore della tradizione, sorseggiare  una bibita seduti su una delle terrazze che guardano ad est, sopra il porto e verso la baia di Maltezana con , più in là, le numerose rientranze della costa meridionale, alcune ottimi ancoraggi con i venti estivi settentrionali. Piacevole la sosta all’ancora nella baia di Maltezana dove sorgono piccole strutture turistiche e taverne tradizionali, vivacizzata dalla presenza di  barche da pesca dai tanti colori, nelle cui vicinanze  pescatori locali sono intenti a ripulire e riparare le loro reti.

Sulla costa meridionale  il meltemi risulta particolarmente vigoroso per l’effetto catabatico. Non è raro, procedendo sottovento all’isola, essere sorpresi da raffiche di 35/ 40 nodi che possono creare difficoltà. Ma, per chi non si fa cogliere impreparato, il forte vento e l’assenza di moto ondoso sono un’opportunità per  correre, con velatura ridotta, lungo la costa al limite della velocità di carena, in una  navigazione entusiasmante, fino al luogo prescelto per l’ancoraggio.

AMORGOS

Amorgos è la più orientale delle Cicladi e la più vicina al Dodecanneso. Qui, secondo una leggenda, Ulisse sostò più di un anno ammaliato dalle arti amatorie di Circe. Testimonianze di una presenza minoica sull’isola sembrano confermare la tradizione che Minosse vi fondò una colonia cretese.  

Abitata fin dal neolitico, raggiunse il massimo splendore nel  cicladico. Di questo periodo sono i resti di mura di difesa, di palazzi , di necropoli, e preziose statuette in un primo tempo tondeggianti, poi sempre più stilizzate per l’influenza dei vicini Ioni nel loro spostamento verso occidente.

Nel VI secolo a.C. divenne colonia di Samo, poi entrò a far parte della lega Delio-Attica che , nella battaglia di Amogòs, fu sconfitta dalla flotta macedone. L’isola perse così l’indipendenza che riacquisì solo nel III secolo a. C. sotto la protezione di Rodi.

  Nel medioevo fu parte del ducato di Nasso, dominio dei Sanudo, e , dopo alterne vicende, dei Quirini di Stampalia che  l’acquistarono dal Senato di Venezia.

Ritornata ottomana per mano del pirata Barbarossa, ottenne l’annessione alla Grecia al termine della guerra d’indipendenza.

Con Venizelos e in seguito con i colonnelli fu luogo di confino.

ISOLA DI AMORGOS

Amorgos, con la sua forma  oblunga per latitudine, con la costa sud impervia e a strapiombo sul mare e quella nord ricca di baie e di spiagge, offre numerose attrattive.

IL MONASTERO

A sud, visibile  solo dal mare , sorge, abbarbicato alla roccia, a 300 metri di altezza, il monastero di Panagia Hozoviòtissa, che risale all’XI secolo e che custodisce numerose reliquie.  Di notevole interesse sono le pergamene dei primi secoli del secondo millennio E’ raggiungibile per una lunga scalinata. Con un po’ di fortuna il visitatore riceve dai monaci, in gran parte russi, un rosolio di buona qualità, gradito al termine della lunga ascesa.

LA HORA

La Hora  si trova sulla parte più alta dell’isola. E’ un paesino incantevole, con bianche costruzioni cicladiche, qualche mulino, strette viuzze che conducono ad una graziosa piazza lastricata. Numerosi negozietti per turisti che offrono oggetti per lo più artigianali, alcuni piccoli bar e un paio di taverne non sembrano aver alterato l’atmosfera del luogo, che conserva intatto il  carattere di un tempo.

IL PORTO DI KATAPOLA

Katapola, il porto dei traghetti, è un villaggio cicladico con case bianchissime e strette viuzze su cui si affacciano piccoli ristoranti, bar, negozietti di vario tipo. All’interno dell’abitato, in posizione elevata, vi è un castello veneziano.  Alcune cappelle ortodosse sorgono sulle rive della baia.

Ho sostato  più  volte a Katapola, e ho alcuni episodi curiosi da raccontare.

La banchina  del porto, leggermente incurvata, è sostanzialmente perpendicolare alla direzione del meltemi.   La manovra di ormeggio risulta quindi spesso complicata da un vigoroso  vento di traverso.

  Al ritorno del viaggio attorno  al mondo, eravamo ormeggiati alla banchina di Amorgòs in un giorno di meltemi. Accanto a noi, al vento,  una barca da charter di una cinquantina di piedi con a bordo un equipaggio di italiani. Nel primo pomeriggio decidono di salpare. Come iniziano la manovra, lo skipper, invece di dare avanti con decisione al fine di non scadere sulle altre barche,  procede al minimo. Gli urlo di dare gas, ma sono  parole sprecate! Finisce sulla nostra catena  e ci speda l’ancora. L’equipaggio  non sembra  avere idea di come rimediare al guaio. Mentre, con i motori  mantengo Amaltea scostata dalla banchina, urlo loro che si limitino a tenere la posizione per non coinvolgere  altre barche , che usciamo noi a disimpegnare i ferri. Non sentono ragione, mi dicono che se la cavano da soli. Qualcuno dell’equipaggio ci urla addirittura che, se non sappiamo navigare, restiamo in alto Adriatico. Infine faccio di testa mia , libero le cime di poppa e mi avvicino loro salpando la nostra ancora. Quando però, liberate le catene, riormeggio, devo prendere atto che la nostra passerella, poco prima che uscissimo, si è impigliata con le barbette in un lampione, e l’ha abbattuto. Dalla finestra della vicina capitaneria, un graduato mi fa segno di salire in ufficio con il passaporto. Risultato: il lampione l’ho abbattuto io e devo rifondere i danni.

Ed ecco un altro episodio curioso. Nei mesi estivi, una nota scuola vela lombarda, noleggia ogni anno barche  dai 50 ai 55 piedi per corsi avanzati di navigazione.  Gli allievi , ragazzi e ragazze  tutti o quasi  nel fiore degli anni, vivono la loro vacanza coltivando con entusiasmo le relazioni di bordo. Gli aspiranti skipper, pur capaci, manovrano, nei porti , con una disinvoltura che ha poco a che vedere con la marineria. Se in banchina non c’è posto, se lo fanno incuneandosi a forza  fra le barche, incuranti delle proteste degli altri naviganti. 

 Amaltea è dunque ormeggiata in banchina. Fra noi e la barca accanto c’è un posto libero da utilizzare però con precauzione in quanto , data l’ incurvatura del molo,  la nostra catena e quella del vicino tendono a convergere. Verso sera entrano a Katapola, a tutta velocità, ben riconoscibili dai  vistosi logo rossi  in bella mostra , tre imbarcazioni della scuola in questione, sollevando preoccupazione in coloro che li conoscono.  Una delle barche, dopo essere passata più volte e tutta velocità a pochi metri dalla nostra prua, dà fondo e retrocede nel posto accanto. Annetta, sulla prua, con il piede sulla catena, li avverte che hanno dato ancora sulla nostra catena. Gridiamo allo skipper che ripeta la manovra  in modo civile. Indispettito se ne va. Poco dopo  un  signore di mezza età  chiede ,dalla banchina, di parlare con il comandante. Mi dice che lui è “l’istruttore degli istruttori” e che il suo allievo skipper, data la situazione, non poteva che buttare l’ancora sulla nostra. Ribatto che, se  fosse stato vero, ciò avrebbe significato  che il posto non era agibile, aggiungo poi che,  con un po’ di attenzione nel posizionare il ferro , un po’ di calma e  di rispetto per gli altri, il suo allievo avrebbe potuto ormeggiare lì senza creare fastidi a nessuno. Quando poi gli chiedo se sia lui a insegnare ai suoi ragazzi  a manovrare nei porti a quella velocità e ad ormeggiare a quel modo, se ne va offeso con fare offeso.

Un’immagine di quel momento mi resta impressa: Annetta che, ai piedi della nostra passerella, osservava , incredula, dal basso l’imponente “istruttore degli istruttori” che sosteneva che , se puoi ricavarti un posto in banchina , hai  il diritto di buttare la tua ancora su quelle degli altri,  e che poi, allontanandosi, ci dava a voce alta degli incompetenti…Per finire, a Katapola, noi di Amaltea, reduci da due giri del mondo, ci siamo presi degli “inesperti e incompetenti”.

Bene, questi sono solo alcuni dei ricordi che mi legano ad Amorgos…alla prossima volta, con un’altra isola e altre storie.